Hearth and soul

«[…] Ma che cos’è il cuore, signora? Vale meno di quanto non si creda. È accomodante, accetta tutto. Lo si arreda con quello che c’è, non ha pretese… Il corpo, invece… lui sì che è di gusti difficili, come si suol dire, e sa quello che vuole. Un cuore non sceglie mica. Si finisce sempre per amare. […]»

(Colette, Il puro e l’impuro, pp. 22-23)

Quando Colette parla della dicotomia corpo/cuore centra lo stesso bersaglio già colpito, una ventina di secoli prima, da Catullo: la sua intuizione di un cuore che non ha pretese (e che è contrapposto ad un corpo esigente) apre prospettive impensabili a chi è nato e cresciuto in una società buonista come quella contemporanea.
L’amore, ci indica l’autrice, non è altro che una abitudine: basta stare vicini per qualche tempo e arriva inevitabilmente. Tutt’altro discorso, invece, per la passione: in questo caso è il corpo che parla direttamente al corpo utilizzando il linguaggio della pelle. Un po’ come Catullo, dicevamo, che nel suo carme LXXII distingue bene l’amare dal bene velle: distinzione sottile e tutt’altro che scontata, gravida di richiami al vissuto personale del lettore.
Secondo tutta una lunga tradizione occidentale (di cui si può trovare un esempio nel post di apertura di questo blog, tanto per dire) non esiste mai il sentimento “puro”: l’uomo viene riconosciuto come con un prisma che, colpito da una qualche luce, irradia mille differenti rifrazioni tutt’intorno a sé. Questi colori sono ben distinti e definiti e, benché possano presentarsi talvolta contemporaneamente, generalmente non si mischiano tra loro (salvo rarissimi casi, e a ciò vedasi quanto detto poc’anzi riguardo la scrittura di Rodari): tutto è racchiuso in questo diamante che siamo noi stessi ma, indica Colette, viene dislocato in maniera distinta per i nostri vari organi.

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